CAPITOLO 8
La mattina successiva il commissario arrivò in ufficio più tardi del solito. In quei giorni doveva pensare anche alla sua nuova casa, ingombra di scatoloni da aprire e sistemare. Aveva preso accordi con la signora Rosa, quella sera stessa sarebbe stata l'ultima alla pensione “Mare Blu”, l'indomani sarebbe andato a vivere stabilmente nel suo appartamento.
Si era appena seduto alla scrivania, quando la voce di Palumbo lo raggiunse:
“Mario, io vado ad interrogare il portiere del palazzo. Vieni con me?”
“Certo.”
Uscirono a piedi, l'edificio non era distante che poche centinaia di metri dal commissariato. Giunti sul posto trovarono il portiere ad aspettarli sulla porta del suo alloggio. Li fece accomodare, ancora visibilmente provato dall'esperienza vissuta. Poteva avere all'incirca la stessa età del commissario, ma dimostrava almeno dieci anni di più. Leggermente curvo, con gli occhi cerchiati, i capelli che mostravano le prime tracce di grigio ed un principio di calvizie alle tempie.
“Vi posso offrire un caffè?”
“Grazie, molto gentile.”
Il portiere fece un cenno alla moglie, che andò in cucina a preparare il caffè. L'alloggio era piccolo, chiunque avrebbe potuto ascoltare tutta la conversazione, ma tanto non c'erano segreti.
Palumbo si stava occupando del caso, il commissario sarebbe intervenuto solo su richiesta del suo vice.
“Signor Caracciolo, può dirci come sono andate le cose?”
Il portiere fece un lungo sospiro, poi attaccò:
“Dottore, è stato terribile. Stavo passando l'aspirapolvere tra il sesto ed il settimo piano, questo è un condominio molto grande, la pulizia delle scale viene divisa tra i vari gruppi di piani nel corso della settimana. Potevano essere le dodici e un quarto, ricordo l'orario perchè mia moglie prepara il pranzo per le dodici e trenta. L'aspirapolvere era acceso, ho sentito un suono sordo ma ho pensato all'officina meccanica qui accanto, d'altronde loro chiudono alle tredici. Sono andato a pranzo, ho ripreso servizio alle quindici. Poi...”
Si fermò, scosso da un lungo brivido. In quell'istante comparve la moglie con il caffè. Teneva tra le mani un vassoio a fiori, con sopra delle tazzine decorate con colori vivaci. Il tutto sembrava quasi stonare con l'aria intrisa di spavento che si respirava nell'alloggio. Servì gli ospiti, poi si sedette accanto al marito, quasi a volerlo incoraggiare, a dargli fiducia.
Bevvero il caffè, quindi il portiere continuò:
“... poi l'ho visto. Ero appena uscito di casa e stavo andando verso uno degli ascensori.”
Palumbo lo interruppe:
“Come ha fatto a vederlo?”
“Dottore, questo palazzo è circondato da un cornicione posto all'altezza del portone, forse lo avrà notato. E' un cornicione largo circa un metro, una persona ci cammina comodamente. Appena al disopra del cornicione si trovano una serie di bassi lucernari, che si interrompono solo nella zona degli ascensori.”
“Perchè mi dice che una persona ci cammina comodamente?”
“Perchè l'ho provato, dottore. A volte ci salivo per pulire i vetri dall'esterno.”
“E perchè non l'ha più fatto?”
“Perchè è molto più sicuro smontare un lucernario per volta e lavare il vetro in cortile.”
Forse il portiere non aveva tutti i torti. Continuò il suo racconto.
“Come dicevo prima, alle quindici sono uscito dal mio alloggio per riprendere servizio. Avevo fatto la pulizia dei vetri la scorsa settimana, in occasione del turno del primo e secondo piano, quando ho notato una cosa: un vetro, uno solo, era coperto da schizzi rossi. Dall'esterno.”
“Come ha fatto a capire che era macchiato dall'esterno?”
“Perchè se si fosse sporcato dall'interno, avrei trovato le tracce anche sulla parete.”
Acuta osservazione. Palumbo si sarebbe morso la lingua.
Il portiere non riuscì a riprendere. Un tremito continuo lo scuoteva leggermente.
La moglie gli mise un braccio attorno alle spalle, gli prese la mano. Quel momento di tenerezza, di complicità, colpì profondamente il commissario ed il suo vice. Con voce carezzevole, Palumbo gli disse:
“Signor Caracciolo, se non la sente di continuare possiamo rinviare ad un altro momento.”
“No no, non si preoccupi dottore. E' che il ricordo di ciò che ho visto mi terrorizza ancora.”
La signora Caracciolo portò al marito un bicchiere d'acqua. Il portiere lo vuotò d'un fiato e riprese.
“Dunque, per capire che cosa fossero quelle macchie rossastre, ho preso la scala. Avvicinandomi al vetro ho capito che si trattava di sangue, così all'inizio ho pensato ad un animale, che so, un gatto, un gabbiano. Ma era troppo grande e poi ho riconosciuto la camicia.”
Il portiere si fermò. La fronte era imperlata di sudore, gli occhi spaventati, il tremito aumentava.
Palumbo capì la situazione, fece per alzarsi, ma il portiere lo fermò con un cenno. Evidentemente sentiva la necessità di alleggerirsi, di liberarsi la mente e l'animo da quelle immagini terribili.
“Era la camicia che portava la mattina del giorno prima, quando l'ho incontrato per le scale.”
“Vi siete salutati?”
“Un rapido cenno con la testa. Era un tipo taciturno, non dava confidenza a nessuno, al massimo un buongiorno o buonasera.
“Quale appartamento occupava?”
“Un monolocale al decimo piano. Ma era fuori casa per la maggior parte del tempo, per quanto ne so io. Lo vedevo uscire al mattino verso le otto, talvolta rientrava a mezzogiorno per poi uscire alle quindici e trenta circa. Qualche sera lo vedevo rientrare intorno alle diciannove, altre volte no.”
“Signor Caracciolo, lei da quanti anni presta servizio in questo stabile?”
“Da dodici anni. Non avevo mai visto una cosa del genere e sinceramente spero che non mi capiti mai più. E' stata un'esperienza tremenda.”
“Un'ultima domanda. Potrei avere i dati anagrafici di questo inquilino?”
“Ma certo. Glieli prendo subito.”
Si alzò e raggiunse un piccolo schedario, tornò con un foglio colmo di nomi e numeri.
“Ecco qui. Questa è una fotocopia dell'elenco di tutti gli inquilini, il nome che le interessa è quello evidenziato in giallo.”
Il commissario ed il suo vice si alzarono, Palumbo strinse la mano al portiere e sua moglie:
“Signor Caracciolo, lei è stato veramente molto gentile e disponibile. Grazie signora, il caffè era ottimo. Arrivederci.”
“Arrivederci.”
Uscirono dal palazzo, Palumbo chiese al commissario:
“Che ne pensi?”
Boschi rispose:
“Secondo me il portiere ci ha raccontato le cose nel modo esatto in cui si sono svolte. A parte il fatto che lo spavento che aveva negli occhi non sarebbe potuto apparire più reale, quel poveraccio non ha alcun motivo per nasconderci qualcosa. Se presta servizio da dodici anni nello stesso posto vuol dire che fa bene il suo lavoro. In genere nei condominii bastano due o tre lamentele all'amministratore, il quale ha tutto l'interesse a sostituire il portiere. Così evita rogne. No, quello non c'entra nulla, te lo dico io.”
Giunsero in commissariato, Palumbo andò nel suo ufficio, Boschi lo raggiunse.
“Mario, guarda qui: Nathan Suzette, nato a Quezon City il 28 gennaio 1971, cittadino americano dal 1989, con residenza a San Francisco.”
“Non doveva passarsela male.”
“Pare di no, ma è bene approfondire. Che ne dici?”
“Perfettamente d'accordo.”
La squadra funzionava alla perfezione. Identità di vedute, di proposte, di idee.
Il vicecommissario chiamò:
“Zuccoli!”
Il ragazzo apparve in un batter d'occhio.
“Zuccoli, ho bisogno che tu mi faccia una dettagliata ricerca. Scova su Internet tutte le informazioni possibili riguardanti questa persona. Se necessario prendi contatto con l'Interpol.”
“Agli ordini.”
Il ragazzo uscì a passo svelto dall'ufficio.
Boschi si rivolse al suo vice:
“Pensi che il medico legale sia rientrato dalle ferie?”
“Penso proprio di sì. Non credo che si sia preso delle vacanze lunghe, sapendo che si trovano sotto organico.”
“Una telefonata non guasterebbe. Che ne dici?”
Palumbo sorrise e compose il numero del centralino. Rispose Menichelli.
“Mi dica, dottore.”
“Chiamami il dottor Sartorelli e passamelo qui.”
“Subito dottore.”
Maurizio Sartorelli era il responsabile dell'istituto di medicina legale. Sui trent'anni, scapolo, era molto bravo nel suo mestiere e dimostrava infinita disponibilità. Anche stavolta non si smentì.
“Vicecommissario Palumbo, è un piacere risentirla. Avrei dovuto chiamarla in mattinata, sono stato indaffarato a firmare moduli e rapporti. Accade sempre così, quando mi assento qualche giorno. Ma ho eseguito l'autopsia su quel poveretto caduto dal palazzo, era davvero irriconoscibile.”
“Mi può anticipare qualcosa?”
“Certamente. Nel rapporto che le invierò troverà poi tutti i dettagli. Una cosa la sorprenderà, ne sono certo.”
“E cioè? Dottore, non mi tenga sulle spine!”
“E' stata una macabra messinscena.”
“Che intende dire?”
“Che il poveretto, al momento dell'impatto con il cemento, probabilmente era già morto. Aveva una notevole quantità di gas metano nei polmoni e nelle vie respiratorie. Per quanto mi hanno riferito i soccorritori, il corpo si trovava su un cornicione in cemento, davanti ad un lucernario, ben lontano da contatori, tubazioni o rubinetti di presa.”
“Quindi, secondo lei, prima sarebbe stato ucciso e poi buttato giù?”
“E' probabile. Molto probabile.”
Palumbo scosse la testa. Si rivolse al commissario.
“Perchè si fa respirare del gas ad un poveretto prima di gettarlo dal decimo piano? Per avere la certezza della morte? In fondo non si sarebbe salvato comunque, dopo un volo di trenta metri!”
“E' quello che pensiamo noi, Luca. Ma non ne possiamo avere la certezza. Intanto cerchiamo di capire meglio chi era questo Nathan Suzette e come mai è diventato cittadino americano.”
Sentirono bussare alla porta. Palumbo disse:
“Avanti!”
Era Zuccoli. In mano portava un fascicolo ed una scheda segnaletica.
“Dottore, credo di aver trovato quanto le occorre.”
In effetti, quel materiale riassumeva tutto il presente ed il passato del signor Nathan Suzette. Ed era una storia da approfondire.
Questo individuo, filippino di nascita, era entrato in America a quattordici anni, con i genitori ed il fratello, di quattro anni più grande di lui. Erano stati classificati come profughi ed alloggiati in un centro di prima accoglienza. I genitori venivano impiegati come operai in una piccola fabbrica e ricevevano un modesto compenso dal Governo, il fratello lavorava come facchino in un magazzino di mobili, il giovane Nathan veniva sostenuto dai volontari del centro. Una sera, rientrando dal lavoro, i genitori furono attaccati da un gruppo di teppisti: il padre venne picchiato selvaggiamente fino a restare esanime sull'asfalto, la madre venne stuprata più volte e poi lasciata a terra. Furono soccorsi da un automobilista di passaggio e portati in ospedale, dove morirono dopo poche ore per le violenze che avevano subìto. Il più grande dei Suzette rientrò nelle Filippine, il giovane Nathan visse al centro di accoglienza per due anni, finchè a sedici anni venne assunto come apprendista in una fabbrica della zona. Il proprietario gli offrì una camera in casa sua, Nathan accettò e vi rimase per due anni, poi si cercò una casa propria. Appena compiuti i diciotto anni, chiese ed ottenne di diventare cittadino americano. A ventitrè anni lasciò il lavoro, il ricordo dell'infanzia da fame e la voglia di emergere lo portarono a conoscere alcuni esponenti di spicco della mafia cinese, in grado di garantirgli guadagni consistenti in poco tempo. Il ragazzo fu impiegato come corriere in un traffico d'armi internazionale: il suo compito era il trasferimento dei capitali, frutto del traffico illecito, da un Paese all'altro. Sfuggito più volte alla cattura, trovò una base apparentemente sicura nel centro Italia: un piccolo aeroporto, pochi o scarsi controlli, dal quale era possibile entrare ed uscire indisturbato. Segnalato dall'Interpol alle forze dell'ordine di mezza Europa, viene intercettato dalla polizia all'aeroporto di Pescara, una valigetta ancora piena di Euro divisi in vari tagli. Sostiene di non saper spiegare la provenienza del denaro, viene arrestato e tradotto nel carcere di San Donato, dove rimane solo un anno grazie alla sua disponibilità a collaborare.
Fa qualche nome, ottiene gli arresti domiciliari, ma per l'Interpol sono “pesci piccoli”, persone di bassa manovalanza. Affitta un monolocale in un condominio di Montesilvano, è piccolo, non si può vivere rinchiusi in quindici metri quadrati giorno e notte. E' come stare in carcere, l'avvocato dell'uomo lo comunica al giudice, che è irremovibile. All'Interpol non mollano, vogliono i capi, in cambio Nathan potrebbe avere la semilibertà, magari anche la possibilità di un lavoro onesto e sicuro. Ma Suzette è un osso duro, conosce il gioco; sa che la polizia dovrà scendere a patti, un uomo come lui occorre vivo, se facesse i nomi sbagliati sarebbe morto in un batter d'occhio.
La situazione cambia quando Suzette apprende, attraverso Internet, una notizia che lo sconvolge. La mafia cinese gli ha ucciso il fratello, una morte orrenda: incaprettato e bruciato vivo nella sua auto, colpevole “solo” di essere il fratello del traditore.
A quel punto la situazione precipita. Nathan vuole parlare con il giudice, la morte del fratello non può che essere un preavviso per lui, decide di fare i nomi dei capi, tanto ormai la sua condanna è comunque certa. E' un'organizzazione ramificata, la base operativa è in Pakistan, le menti operano in Cina. Nathan chiede la protezione, il giudice gli concede solo la libertà condizionata.
Palumbo lesse e rilesse la scheda, poi la passò a Boschi.
“Questo spiega tutto.”
Il commissario disse al suo vice:
“Pensi che questo chiuda il caso?”
“A mio parere, sì.”
“Eppure c'è qualcosa che non mi convince.”
“Cosa non ti convince? E' così lampante!”
“Davvero? Allora perchè, secondo te, lo hanno trovato con uno straccio in bocca?”
“Forse perchè chi lo ha ucciso con il gas non voleva che urlasse. Magari avrà aperto la finestra.”
“E qui ti dò ragione. Avrà aperto la finestra, probabilmente avrà anche staccato il frigorifero, spento il cellulare. Doveva eliminare quanto poteva potenzialmente combinarsi con il gas e provocare una esplosione. Ma non sarebbe stato più semplice tramortirlo?”
“Ora che mi ci fai pensare, sì. Ma allora perchè non lo ha fatto?”
Il commissario sorrise.
“Perchè voleva far capire a tutti che si trattava di una punizione esemplare. Insomma, prima lo uccide e poi lo sfigura, analogamente a quanto facevano gli indiani quando prendevano lo scalpo del nemico. Ma con maggior crudeltà, voleva che la faccia del traditore fosse per sempre cancellata, anche nell'immobilità della morte. Mi segui?”
“Sì.”
Il commissario guardò l'orologio, si alzò.
“Direi che ci siamo meritata una doverosa pausa pranzo. Io vado, ci vediamo tra un paio d'ore.”